Ecco. Uno di quei giorni in cui vorresti andare in ufficio, guardarli tutti con sdegno imperioso e senza battere ciglio limitarti a ordinare: dracarys.
Ti mancano solo un drago e il phisique du role.
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Ecco. Uno di quei giorni in cui vorresti andare in ufficio, guardarli tutti con sdegno imperioso e senza battere ciglio limitarti a ordinare: dracarys.
Ti mancano solo un drago e il phisique du role.
È che vorresti dirglielo, e farai fatica a trattenerti. E se ti trattieni non è solo per non cadere nell’irritante te-l’avevo-detto-io, ma anche perché credi che in fondo l’abbia già capito da sola. Perché restare senza lavoro è terribile di per sé, e di per sé si porta dietro tutte le angosce e le autoflagellazioni che tu conosci così bene: ma allora non valgo niente, ma allora da qualche parte ho sbagliato, ma allora ho fallito. E nel suo caso, credi, deve per forza esserci qualcosa di più profondo che si agita. E allora a cosa servirebbe puntare il dito sulla sua sudatissima laurea buttata alle ortiche, sul dottorato rifiutato perché doveva sposarsi, sul tirocinio interrotto perché aspettava un bambino, sull’immobilismo ottuso che l’aveva presa quando aveva finalmente potuto rimettersi in cerca di un lavoro e si è accontentata per anni di un impiego di cui non faceva altro che lamentarsi. Ti sei sempre sforzata di pensare che lei era contenta così e che quindi andava bene così. È vero, il quadretto anni Cinquanta di lei che non aspettava altro che sposarsi, trasferirsi nella di lui città e diventare mamma a pochi mesi dalla laurea ti ha sempre fatto rabbrividire. Ma, ti dicevi, tu sei tu, lei è lei, e il vostro legame non implica che abbiate gli stessi occhi sul mondo. E poi non c’è un modo giusto di essere felici. E quindi, ti dicevi, va bene così, cercando di zittire quella vocina (più allarmata che malevola) che cercava di convincerti che prima o poi —
Prima o poi se ne pentirà, e sarà troppo tardi.
Prima o poi si renderà conto del fatto che il lavoro non è solo un modo per pagare le bollette e l’asilo, e sarà infelice.
Prima o poi il lavoro che ha e di cui si accontenta non ci sarà più, e avrà fin troppo tempo per pensare, e ne soffrirà.
E adesso che i malaugurati fatti ti hanno dato malauguratamente ragione, della ragione non sai che fartene.
Per cui prenderai un bel respiro e le offrirai un secondo giro di birra.
Sarà anche per questo che ci sono le sorelle.
Il primo maggio di due anni fa sono rimasta senza lavoro.
Il mio contratto scadeva il 30 aprile e per tanti motivi è finita lì.
Sapevo che si sarebbe aperto un periodo difficile e funestato di angoscia, ma al tempo stesso ricordo di avere pensato che (per tanti motivi, again) si trattava di un’opportunità.
A conti fatti è stato così. Ma è stato molto più difficile di quanto potessi immaginare la mattina di quel primo maggio, affacciandomi a quello che sarebbe stato il mio primo lunedì al sole.
Ci sono voluti quattordici mesi, una settimana e due giorni per trovare un altro impiego.
Ci sono voluti centinaia di curriculum inviati in mezza Italia, una marea di colloqui, un trasferimento in un’altra città. C’è voluta tanta fortuna, ma anche un po’ di coraggio.
Ci sono state mattine interminabili, nottate fatte di occhi sbarrati nel buio e di singhiozzi inghiottiti perché nessuno potesse sentirli. Ci sono stati sobbalzi ad ogni email ricevuta, ad ogni chiamata sul cellulare. C’è stato il girone infernale delle agenzie interinali, ci sono state domande umilianti e supponenti, apprezzamenti magari anche sinceri che però avevano il sapore amaro del rifiuto. Ci sono stati momenti di paralizzante terrore – letteralmente: come quella volta che un po’ per scherzo e un po’ no mi sono seduta a terra in un angolino della nostra stanza, “come il sergente Brody” – Sky stava trasmettendo i primi episodi di Homeland – e mi sono spaventata perché la tentazione di rannicchiarsi in un angolo sperando di scomparire era davvero accecante.
C’è stata l’angoscia che pulsava sulle tempie ogni volta che giravo una pagina del calendario all’inizio di un nuovo mese, perché il tempo mi stava sfuggendo tra le dita, e più il tempo passava più sarebbe stato difficile rispondere all’inevitabile domanda del come mai al prossimo colloquio – come mai non lavora, come mai non ha trovato un altro impiego, come mai ha cambiato città.
Ci sono state le cene tra amici evitate per evitare domande, gli inviti rifiutati perché in quel pozzo nero di disperazione anche solo una giornata di svago sembrava fuori luogo.
Ci sono state tutte queste cose e una parte di me ormai sa che ci potranno essere ancora.
Buon primo maggio a chi lavora ma soprattutto buon primo maggio a chi un lavoro non ce l’ha.
Vai dal parrucchiere, e improvvisamente sono gli anni ottanta.
Ti propinano riviste che pensavi estinte, piene di foto brutte di qualità pessima che ritraggono gente truccata male in pose artefatte. Enormi titoli con font che pensavi parimenti estinti gridano alla rinascita, al ritorno, al ritrovato equilibrio di persone di cui ignori passato e presente professionale ma che devono evidentemente avere una loro notorietà, nonché un solido percorso di vita di corna e drammoni assortiti.
Anche la musica che si diffonde dalla radio sembra provenire direttamente dagli anni ottanta. Le parrucchiere canticchiano con convinzione canzoni che tu non sentivi da almeno vent’anni. Facciamo anche venticinque.
E così poi ti cade l’occhio sui capelli della parrucchiera stessa e quei riccioli pieni di lacca accompagnati da ciuffo e frangetta assumono inevitabilmente (ma sarà l’effetto della Nannini che canta) un’aria molto retrò.
Poi paghi, e mentre sei lì ad attendere la transazione del bancomat noti questi attestati di partecipazione a corsi di taglio moda e simili, tutti datati tra il 1988 e il 1990.
Esci, saluti, torni a casa e F. che ti dice “bello il colore, ma chi ti ha fatto la piega? sembri Lorella Cuccarini” ti dimostra inequivocabilmente che a questo giro gli anni ottanta te li sei portati a casa.
E anche tu, che da mesi vai sbandierando a chiunque ti voglia stare a sentire (ma anche no) che a Milano si sta da ddìo e che è una città bellissima e che rimpiangi solo di non essertici trasferita prima, poi sei costretta ad ammettere che oh, magari è un caso, ma nel primo inverno “pieno” trascorso a Milano ti sei buscata due volte la faringite e adesso pure una simpatica bronchite – e questo nei cinque anni trascorsi a Roma (a due passi dal mare, là dove di fatto l’inverno non esiste, nonostante i romani si vestano come eschimesi a partire da metà ottobre fino a dopo Pasqua) non era mai successo. In effetti.
Ti dicono sempre che la vita è una ruota che gira, ma non te ne rendi mai conto pienamente fino a che non ti capita – in senso buono. Perché diciamolo, quando le cose vanno male l’idea che prima o poi passerà te la ripeti come un mantra, ma a meno di uno sfacciato ottimismo è difficile aspettarsi veramente un magnifico destino che compensi in un prossimo futuro le sciagure della vita presente. E invece, quando le cose improvvisamente si mettono bene – per fortuna, determinazione, capacità o molto più spesso per un po’ di tutte queste cose insieme, in proporzioni variabili – la ruota che gira la vedi benissimo, lì che macina in mezzo a sentimenti confusi e vagamente colpevoli.
Immaginarti lì, dall’altra parte del tavolo, con in mano le speranze di tante persone, è frastornante. Ne senti tutto il peso e va bene così. Ricordi ancora i colloqui migliori e peggiori che hai fatto e speri di avere imparato qualcosa – dal meglio e dal peggio. Qualcun altro tornerà a casa ricordando la tua faccia, la tua espressione, le tue domande, ti maledirà o prenderà in giro o ti riterrà un’imbecille, e magari ci scriverà un post. Cercherai di farti trovare sorridente, attenta e possibilmente pettinata. In un qualche modo, glielo devi.
Che poi sarebbe un post di prova.
E tuttavia, ha un senso di nuovo.